Intervista esclusiva a Paolo Mereghetti
Dizionario dei film 2021 in uscita il 19 novembre
Il Mereghetti. Dizionario dei film 2021.
In copertina, per celebrare il 40° anniversario del quinto episodio della saga di Guerre stellari, troviamo – in un elegante e stiloso nero e bianco – Darth Vader. Disponibile a partire dal 19 novembre edito da Baldini+Castoldi.
Diamo il bentornato a Paolo Mereghetti. Siamo arrivati alla tredicesima edizione del dizionario, quali sono le principali novità?
«Mi verrebbe da dire che la principale novità del Dizionario 2021 è l’essere rimasto molto fedele a sé stesso. Come sempre io e i miei collaboratori abbiamo cercato di coprire le uscite degli ultimi due anni, non solo al cinema ma anche in streaming, arrivando fino a Tenet. Poi abbiamo continuato nell’opera di revisione delle vecchie schede, affrontando in maniera sistematica alcuni autori di cui abbiamo anche integrato le eventuali mancanze (cito almeno Andrzej Wajda, Michel Deville, Pupi Avati, Robert Bresson, Carlo Verdone, Henri Verneuil, Philippe de Broca ma anche i film di Gianni e Pinotto e quelli della serie di Francis il mulo parlante), abbiamo cominciato a rivedere alcune filmografie (Vincent Minnelli, Ingmar Bergman, Federico Fellini) e abbiamo notevolmente integrato le filmografie di autori meno popolari ma non per questo meno importanti (come Kon Ichikawa, Mikio Naruse, Keisuke Kinoshita, Robert Hossein, Frank Wisbar, William Castle, W.C. Fields). Sono ben cinque le nuove schede tematiche che arricchiscono ancora di più il dizionario: quella dedicata a Gianni e Pinotto, quella dedicata a tutti i corti di Buster Keaton (ognuno dei quali ha naturalmente la sua scheda) così da concludere la disamina dei grandi maestri della comicità muta, dopo Charlie Chaplin e Stanlio e Ollio; poi le due dedicate ai mondi cinematografici ispirati ai fumetti – il DC Comics Extended Universe e il Marvel Cinematic Universe – e per finire una mega scheda dedicata all’universo di Star Wars (frutto del lavoro e della competenza di Filippo Mazzarella e Alberto Libera) che mi azzarderei a definire «definitiva»».
C’è un importante cambiamento in questa nuova edizione per quanto riguarda i suoi collaboratori. È uscito Pier Maria Bocchi che era uno di quelli più stretti, c’è stata eventualmente una nuova entrata? Inoltre ci può dire brevemente qualcosa anche di Roberto Curti, Roberto Manassero, Daniela Persico, Carlo Alberto Amedei, Giacomo Calzoni e Alex Poltronieri. Che apporto critico danno al suo dizionario?
«Pier Maria Bocchi ha preferito lasciare il dizionario per seguire altri impegni e non posso che ringraziarlo per il contributo che ha dato negli anni passati. L’unica vera nuova entrata nell’edizione 2021 è quella di Alberto Libera che si è subito perfettamente amalgamato nella squadra dei collaboratori: ognuno porta le proprie competenze e le proprie specificità ma non esistono aree di preferenza perché il lavoro del dizionario è soprattutto guidato dallo sforzo di cancellare le proprie caratteristiche di scrittura per arrivare alla redazione di schede il più possibile omogenee, dove competenza e linguaggio si mettano al servizio della chiarezza di documentazione e di comunicazione in favore del lettore. Ho sempre voluto che il nome dei collaboratori fosse ben visibile nelle prime pagine (e non relegato in qualche nota in corpo minore come qualche celebre dizionario estero) ma rivendico un lavoro di redazione (e di integrazione) in primissima persona che fa del Dizionario dei film un’opera omogenea e non il collage di 33 mila schede».
Ormai Netflix è diventato di uso quotidiano e sta cambiando un po’ il modo di vedere i film a casa. Quali sono ad oggi secondo lei i film da non perdere su Netflix visto che – a parte Roma di Cuarón e The Irishman di Scorsese – non sono usciti in sala e chissà se usciranno mai in home video? Può citare alcuni titoli imperdibili, eventualmente anche visibili su altre piattaforme esclusive come Amazon e Apple TV+?
«Non so fino a che punto lo streaming sia davvero in alternativa al cinema. Siamo solo all’inizio di un lungo percorso (che la pandemia ha accelerato ma che è ancora ben lontano dal suo compimento) che probabilmente farà convivere due modi distinti di «vedere cinema», uno a casa e uno in sala. Più che un modo diverso di usufruirlo mi preoccuperei dell’abbassamento del gusto (e quindi delle attese e delle aspettative dello spettatore) che la massa di titoli arrivati in streaming porta con sé, visto che si tratta per la maggior parte di opere pensate soprattutto per riempire i palinsesti (anche se ultimamente, l’operazione di Netflix per far vedere quindici giorni prima dello streaming alcuni loro film in sala, come è già stato per Il processo dei Chicago 7 e sarà presto per altri titoli, apre nuovi scenari, proprio nella direzione di una «convivenza» tra le due forme di sfruttamento, a casa e al cinema). Comunque, tra i film che si trovano solo in streaming vorrei almeno citare Diamanti grezzi dei fratelli Safdie (avrà tre stelle e mezzo sul dizionario), una delle operazioni più illuminate di Netflix».
Tra i film usciti negli ultimi due anni secondo noi uno dei migliori in assoluto è l’intenso “Dolor y gloria”, opera fortemente autobiografica di Pedro Almodóvar. Può anticipare ai lettori di DVD italy – come da tradizione – la scheda critica?
«Dolor y gloria ***½ (Dolor y gloria, Spagna 2019, col, 108’) Pedro Almodóvar. Con Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asier Etxeandía, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Julieta Serrano, Asier Flores, César Vicente, Cecilia Roth, Susi Sánchez, Raúl Arévalo, Pedro Casablanc. # L’acclamato regista Salvador Mallo (Banderas) vive da tempo un declino fisico e creativo che lo ha allontanato dal set. Perduto nei ricordi dell’infanzia – l’affetto per la madre (qui, Cruz), l’educazione in seminario, il trasferimento nel villaggio di Paterna – dopo la proiezione in cineteca del suo primo grande successo, ricontatta l’attore di quel film, Alberto (Etxeandía), col quale non si parla da anni, e gli offre di portare in scena un suo monologo autobiografico. Alberto accetta e contemporaneamente avvia Salvador all’uso dell’eroina, unico cura efficace contro lancinanti dolori alla schiena. A una replica dello spettacolo assiste Federico (Sbaraglia), il primo amore di Salvador, che si riconosce nella figura del ragazzo amato dal protagonista e quella sera stessa si presenta a casa di Salvador. L’incontro spinge Salvador ad abbandonare la droga, a farsi operare alla schiena e a ripensare al rapporto con la madre (qui, Serrano) ormai morta, con la quale il rapporto si era incrinato. Salvador ritrova inoltre un acquerello che lo ritrae da bambino e ripensa al suo autore, il muratore analfabeta Eduardo (Vicente), che aveva suscitato in lui bambino (Flores) il primo turbamento sessuale. Munito di nuovi ricordi e una nuova consapevolezza, decide di tornare sul set e girare un film dal titolo El primero deseo, «il primo desiderio». A settant’anni e al ventiduesimo lungometraggio, Almodóvar, anche sceneggiatore, racconta il blocco esistenziale e creativo di un regista e non nasconde gli evidenti rimandi alla sua carriera. Più che un personale 8½, però, il film è piuttosto il nuovo capitolo di una ininterrotta autobiografia immaginaria dell’autore, che affidando a un Banderas mai così bravo il ruolo del proprio alter ego affronta gli impedimenti e gli stimoli della sua opera e della sua vita: la paura del silenzio, l’ostacolo della malattia, il rimpianto per gli amori perduti, la nascita del desiderio, l’amore salvifico per il cinema. Almodóvar intende l’autobiografia come un genere che lo coinvolge a livello sia fisico sia spirituale e racconta il calvario del protagonista intrecciando il dolore dei ricordi a quello del corpo, il piacere dell’epifania all’oblio dei sensi generato dalla droga. Attraverso l’uso di continui flashback e piccoli espedienti narrativi che diventano chiari grazie al movimento di macchina finale, la vita stessa di Salvador è trasformata in un film, come se Almodóvar sapesse di poter salvare la propria identità di uomo, artista, figlio e amante solo filtrandola, e distanziandola, con le immagini. Una dichiarazione d’amore e insieme di resa alla propria ossessione, che racchiude il tormento e l’estasi di un regista mai così vicino al cuore della sua arte e mai così abile nel gestire il pianto e la crudeltà. Palma d’oro a Cannes per Banderas».
Cinema e filosofia. Lei si è laureato in filosofia con una tesi su Orson Welles. Quanto è importante per lei l’approccio filosofico nella visione dell’opera e successivamente nello scrivere la critica? Inoltre può consigliare ai nostri lettori qualche importante film per i contenuti filosofici presenti?
«La filosofia mi ha dato un metodo di studio e di analisi ma mi sembra sbagliato pensare che si possa affrontare un film solo dal punto di vista filosofico: vorrebbe dire vedere in un film solo una parte del suo valore (o dei suoi difetti) mentre ogni film è un’opera complessa che richiede più strumenti culturali per essere capita e apprezzata. Altrimenti il rischio è quello di estrapolare questo o quel passaggio per adattarlo al proprio ragionamento, abbassando il cinema a «stampella» di qualcos’altro (come ahimè ogni tanto fa quel genio di Slavoj Žižek). Questo non vuol dire che non ci siano dei «registi filosofi» come Kubrick, Buñuel o Bresson, ma le loro riflessioni filosofiche passano attraverso le loro opere, attraverso uno stile e sarebbe tempo sprecato cercare di estrapolare dai loro film un sistema filosofico come quello di Kant o di Hegel. Vedendo i loro film metti in moto la tua testa, ragioni e rifletti. E questo è già «fare filosofia»».
A molti giovani mancano le basi del cinema, quello fondamentale, e le istituzioni e la televisione di stato non sono assolutamente d’aiuto in tal senso. Testi letterari e documentari potrebbero incuriosire e fungere da base per il cinefilo neofita, ha qualche consiglio da dare a chi si affaccia oggi al mondo della settima arte?
«Il primo consiglio è vedere molto cinema, ma anche quello di cinquanta, settanta, cent’anni fa. Anzi, soprattutto quello. Dimenticare Tarantino o Leone e ristudiarsi Ford, Murnau, Lang, Ozu, Renoir, Rossellini eccetera eccetera. Poi naturalmente studiare la storia del cinema, cominciando magari con il volume di David Bordwell e Kristin Thompson (Storia del cinema. Un’introduzione, edizioni McGraw-Hill) a cui affiancare quello di Giulia Carluccio, Luca Malavasi e Federica Villa (Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, pubblicato da Carocci). Per una lettura meno «scolastica» e più appassionante raccomanderei L’America e il cinema di Michael Wood (edizioni Garzanti) che però si trova solo ai remainders e poi Il western curato da Gianni Volpi per Feltrinelli (anche lui esaurito da tempo). Ma per capire davvero cos’è il cinema si può leggere quel gioiello che è il racconto breve di Delmore Schwarz Nei sogni cominciano le responsabilità, recentemente ripubblicato da Neri Pozza».
Intervista realizzata da Cristian Spazzoli © 2020 DVD italy
Si ringrazia per la disponibilità Giulia Civiletti dell’ufficio stampa di Baldini+Castoldi.
data: 06/11/2020