Cronache dalla sala
Cervelli in fuga nell’America fiacca
Guardando un film come “Il bandito delle ore 11” di Jean-Luc Godard (anno 1965) ci si rende conto di quanto ormai, nei giorni nostri, sia lontana la ricerca di una reale sperimentazione cinematografica. Nei suoi accenti e nelle sue provocazioni, il bizzarro road movie a tinte noir del cineasta francese, co-fondatore della Nouvelle Vague, costruisce immagini in movimento alla stregua di un grande pittore espressionista. Senza indugi e con tanta voglia di ricreare nuovi linguaggi e nuove prospettive Godard si getta insieme alla troupe e agli attori dentro una vera e propria avventura fatta di autentiche innovazioni: dalla fotografia alla recitazione, dal montaggio alle inquadrature il regista sperimenta senza riserve e prosegue il suo eclettico percorso artistico cominciato qualche anno prima con “Fino all’ultimo respiro”.
Siamo nel cinema ai tempi della rivoluzione, periodi dorati dove la fantasia delle nuove generazioni e la voglia di rompere con gli schemi del passato andavano al potere: Godard in Francia ma anche Schlesinger in Gran Bretagna, Antonioni in Italia e John Cassavetes in America sono solo alcuni esempi delle giovani generazioni di un epoca in cui il cinema diventava uno strumento d’arte in grado di riscrivere le regole della narrazione.
I periodi della sperimentazione sono finiti, il cinema non vive più di prototipi, in questi tempi moderni la settima arte vive solo di eventi. L’usa e getta è diventata la priorità assoluta di una (fu) corrente artistica che produce in serie prodotti per il largo consumo. Tanto si produce perché nulla resti. A immagine e somiglianza di una società sempre più interessata a incentivare inutili consumi, anche il cinema diventa un affare da manipolare e massificare a tutti i livelli, con lo strano paradosso che anche il cinema cosiddetto “off”, oggi come oggi sembra realizzato dalla stessa filiera produttiva che stampa prequel e sequel a rullo continuo.
Il cinema che fa ancora sognare è ormai un luogo comune sdoganato da TV e giornali alla stregua di un messaggio promozionale. Oggi il cinema degli eventi non si critica, si vive, nel caso dei Festival, con la passione di una gita scolastica… nel caso di una serata da Oscar come una sfilata di abiti da sera, nel caso di un regista italiano che approda in America per girare un film come un evento epocale che deve dare fiducia e speranza a tutto il paese.
Prima Gabriele Muccino e adesso Paolo Sorrentino: cervelli in fuga alla ricerca di una identità internazionale o disperato bisogno da parte dell’America di aggiungere qualche colore esotico al proprio grigiore?
Si parla tanto e a volte a sproposito. Salutiamo con gaudio la partenza di un altro regista italiano che va in un’America cinematograficamente fiacca per realizzare un progetto (“This Must Be the Place”) fin troppo compiacente e non ci ricordiamo che i nostri storici registi italiani, quelli che hanno saputo raccontare un’umanità e un paese in maniera personale e unica, non hanno avuto bisogno di andare troppo lontano per portare la propria cultura e il proprio segno distintivo in tutte le parti del mondo.
data: 20/10/2011