Pietro Germi
Il regista che “sedusse” Billy Wilder.
Pietro Germi è uno dei registi più importanti negli anni d’oro del cinema italiano che vanno dal dopoguerra fino agli inizi degli anni ’70. Nato a Genova nel 1914 frequenta l’istituto nautico un po’ come tanti genovesi della sua generazione, ma il mare non lo ispira più di tanto, piuttosto gli interessa il cinema e si trasferisce molto presto a Roma iscrivendosi al Centro Sperimentale di Cinematografia dove trova un’accoglienza particolarmente positiva da parte di uno dei più importanti registi del tempo: Alessandro Blasetti (“La cena delle beffe”) che vede in lui un giovane di talento.
Il suo primo lavoro nel cinema italiano è quello di sceneggiatore, lavora con Federico Fellini, ma soprattutto con Mario Monicelli che oltre alla passione per il cinema condivide con lui anche la passione politica per la tradizione socialista. Oltre a scrivere fa anche l’attore, in “Fuga in Francia” di Mario Soldati (1949), Germi interpreta la parte di un reduce della guerra in Russia che si assume il compito di allevare il figlio di un gerarca fascista fuggito dall’Italia e catturato ai confini della Francia.
Uomo tutto di un pezzo, laconico con una forte tempra morale e con una forte base proletaria e sociale il personaggio interpretato da Germi nel film di Soldati assomiglia molto a quello che sarà l’essenza del suo cinema specie nella prima fase della carriera.
Da regista il suo primo importante lavoro è “Il testimone” (1946): tra neorealismo nascente, poliziesco e melodramma è un film che ispirandosi a quella cinematografia francese degli anni ’30 di Marcel Carnè e di Jean Renoir risulta già particolarmente complesso nella sua struttura narrativa. Ma è con “In nome della legge” (1949), storia di un pretore (Massimo Girotti) venuto dal nord che in un paesino siciliano deve confrontarsi con le regole d’onore di un boss locale, che si viene a creare l’importante rapporto tra Pietro Germi e la Sicilia.
Tra le sue opere importanti segue “Il cammino della speranza” (1950), un film di grande impatto popolare che narra di un gruppo di minatori siciliani rimasti senza lavoro a cui viene promessa una nuova occupazione in Francia. Incentrato sul problema dell’immigrazione e della disoccupazione il film in questione è un vero e proprio “road movie” dove i generi si mescolano: il neorealismo si allea all’epica del cinema sovietico per finire con il melodramma criminale che culmina con un duello rusticano molto criticato e definito eccessivo dall’opinione pubblica dell’epoca.
Dopo un momento statico in cui non sembra trovare particolare ispirazione e consenso con lavori come “Il brigante di Tacca del Lupo” (1956) un poco riuscito film western sul Risorgimento nel Sud, ritorna alla grande con tre titoli importarti quali: “Il ferroviere” (1957) “L’uomo di paglia” (1958) e “Un maledetto imbroglio” (1959). Sono tre film molto significativi nell’opera di Germi perché dimostrano una certo distacco stilistico tra il suo personale (e più crudo) neorealismo rispetto a quello che era in voga all’epoca. All’interno di queste storie c’è una profonda critica e risentimento nei confronti di una società individualista e compulsiva che tradisce continuamente i princìpi del vivere comune.
“Un maledetto imbroglio”, tratto dal grande romanzo di Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”, si può considerare il primo film poliziesco o noir della tradizione italiana. In veste di attore principale, sceneggiatore e regista, in questo film Germi, con uno stile nuovo per il cinema dell’epoca, riesce a combinare elementi di commedia, di suspence, di analisi del costume “disegnando” una storia caratterizzata da personaggi loschi e ambigui. Humour e sarcasmo cominciano a prendere forma e di lì a poco esploderanno nei film successivi che lo consacreranno come uno dei registi italiani più importanti e più apprezzati anche all’estero. In Italia siamo in pieno boom economico, al cinema si sta sempre più affermando la commedia all’italiana e Pietro Germi nel giro di cinque anni sforna tre titoli indimenticabili: “Divorzio all’italiana” (1961), “Sedotta e abbandonata” (1964) (ambientati entrambi in Sicilia) e “Signore & signori” (1966).
“Divorzio all’italiana”, Oscar per la miglior sceneggiatura a Hollywood e amatissimo da Billy Wilder, che aveva una vera e propria venerazione per lo stile serrato, moderno e creativo con cui Germi costruiva la sua commedia, è un film che riesce a essere estremamente divertente e nello stesso tempo dissacrante nei confronti di un costume italico fin troppo radicato a retaggi culturali di tipo medioevale. Perfettamente in bilico tra comico e grottesco “Divorzio all’italiana” è un film pressoché perfetto e unico nel suo genere. Leggermente più sbilanciato e forse troppo sovraccarico di satira è il successivo “Sedotta e abbandonata”, un’altra commedia morale sul “meridionale senso dell’onore”. Una città veneta (Treviso), ipocrita e “cattolico-centrica” fa da sfondo ad una delle commedie più singolari della nostra cinematografia “Signore & signori”, un film che si schiera apertamente contro la borghesia arricchita e inaridita dal boom economico. Attraverso un bestiario di personaggi unici (con un indimenticabile Gastone Moschin), Germi inscena un ambiente sociale cinico e iper distruttivo. Dopo questo capolavoro il regista genovese sembra perdere definitivamente quella forza creativa e innovatrice che lo aveva contraddistinto, inizia una fase sicuramente più malinconica e piatta, realizzando film professionalmente dignitosi ma poco convincenti: “L’immorale” (1967) con Ugo Tognazzi, “Serafino” con Adriano Celentano, “Alfredo Alfredo” con Dustin Hoffman e Stefania Sandrelli e l’assai discutibile “Le castagne sono buone” apologia anti ’68 con Gianni Morandi e Stefania Casini.
L’ultimo film doveva essere, “Amici miei”, ma ormai ammalato e purtroppo vicino alla morte, avvenuta a Roma nel gennaio del 1974, passò il testimone al suo caro amico Mario Monicelli.
data: 17/06/2012